Perché eri tu il chiostro ombroso,
il piccolo, immane cielo sovrastante.
Foglie confidenti gettavano ombre azzurrine
L’abbacinante gloria al centro del giorno pieno
parlava agli uomini e ai campi, alla quiete
aspersa e condivisa con urgenza
con l’urgenza materna che conosce
prima di sapere e serba in sé.
Perché eri il microcosmico assestarsi delle ore
ricadenti in fila ordinata.
Perché tu eri l’indaco che sconfina e dilaga
fino a quando il petto, in parossistica ascesa,
sfiata di gioia per non poter più inspirare
inalare la straordinaria ierofania del seme
del giusto sentire, dell’onesto vivere.
Perché eri luogo e punto fermo, il centro del sestante
Il vero verso concluso con l’undicesima sillaba
il prudente coraggio, la strenua difesa
la gioia scorrente tra i campi di giugno
l’alacre lavoro invernale, la voce garrula in aprile
l’abbraccio che concludeva la scesa a perdifiato.
Io ero lì, stupefatto ed estatico,
figlio che all’ombra di questo cipresso
stipula un patto, un’alleanza nuova e antica
come il primo sangue al primo vagito,
come il primo colostro al primo pasto
come il primo passo calcato sul mondo,
come il primo verbo vergato d’inchiostro,
come il primo allontanamento
verso l’impresa insondata
come il commiato ultimativo
come lo squarcio che affonda e si ritrae
acuto uncino che lacera,
straniero divenuto abitatore
infido nella carne e si ritrae.
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