Prima di partire ci rivedremo, per qualche ora soltanto, per un giorno diviso a metà. Una parte del giorno è breve per parlare e far vibrare una accanto all’altra due anime loquaci. Con quanto rimane di questo giorno non avremo tempo per raccontare quello che gonfiava la vela sul plesso, per essere l’uno signore e prigioniero dell’altra, giurare un richiamo al nuovo trapasso di stagione, in attesa del verso mutevole del giorno, roseo e pago all’alba, tondo e radiante nel mezzo, incastonato in dorsi fluenti, ferito di rosso.
Prima di caracollare stanco sull’orizzonte, il giorno dichiarerà ancora e ancora d’essere padrone della quiete e degli affanni, dei languori e della gloria. La gloria nel grano e nei campi, per questi uomini buoni e pazzi, spergiuri e bambini, che attribuiscono non a se stessi ma alla promessa di ieri la colpa per il prossimo cambio di rotta. L’eterno moto ondivago della norma.
Il tuo sguardo su di me e il mio sul tuo viso chiaro. Grana opalescente e pura.
Saranno gli occhi a parlare, le mani a sfiorare, dagli occhi agli occhi, dai sensi ai sensi, fino a quando il pensiero, ormai il pensiero prefigura il distacco, pungerà come un colpo che traguarda la carne. Percezioni asfittiche rendono ottuso questo tempo. Ma in questo tempo abbiamo avuto sorte di vivere, in questo tempo relativo abbiamo appreso e giurato, in questo tempo abbiamo nascosto le mani dopo l’azione, in questo tempo abbiamo affermato con fronte liscia e serena, in questo tempo ingoieremo la promessa inducendoci a bere, a deglutire con forza e a dichiarare di non aver mai detto.
Abbiamo mangiato insieme, indugiato, per far durare di più quel pane, per esaurire il vino con lentezza, per affrontare da scultori inesperti, armati di cucchiai a paletta, un abbozzo di crema. Labile scusa per rendere elastico il teorema delle ore, la sequenza delle ombre che si allungano, per strattonare il tempo dalla giacca e farlo posare su un giorno in regalo, per farci credere di non dover virare all’angolo, dove la strada, in prospettiva repentina, è un luogo crudele. L’asfalto intrappola le scarpe di chi rimane, sui palazzi che delimitano l’allontanamento da questa città, s’inerpicano senza appigli le mani alla cerca.
Scagliato in corsa avevo deprivato il corpo dal suo peso e prendevo distanza. Partivo per non sapere più. Arrotavo il motore e la polvere volatile da sotto le ruote spirava fumo. Era un’estate tonda e solida calata sul mondo. Era un’estate tonda e guerriera che batteva sul ferro rovente ma, mentre guidavo, pioveva a dirotto sul vetro davanti.
Il cielo era stanziale d’azzurrite e il grano splendeva, le rocce erano di rame e giallo antico, ma pioveva sugli occhi. Il tuono non aveva scrollato la ruggine acquosa, ma pioveva sulla stoppa del grano a covoni, dall’azzurro pioveva senza accenno di resa. Pioveva. S’allagavano le terre emerse e i picchi di pietra.
Ci saremmo visti poche volte ancora. E ancora avremmo bevuto il vino a sorsi lenti, accostate e disgiunte le mani, accordate le voci come strumenti il cui fiato attendeva l’abbrivio e l’andante. Accordati i sentori che preludono all’abbandono, al distanziato allontanarsi delle macchie d’ombra diluite lungo la strada, filamentose ai fianchi.
Ciò che rimaneva di quel tempo era l’unica occasione che avevamo.
Il pomeriggio tramontava nella sera. La sera beveva il nero della notte e del nero avrebbe fatto mantello. Lo spirito dell’anima che aleggia sul mondo sarebbe rimasto in riposo, concedendo riposo agli uomini e agli animali. Falene attratte dai fuochi, frinire di carapaci insonni, versicoli e nugelle inanellati ai rami, fin tanto che da dietro l’orizzonte arcuato dei monti non si fosse alzato di nuovo il giorno.
Il tempo concesso aveva esaurito il suo corso. Ci rivedremo.
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