La foresta risuona, come un organo a canne, mentre il vento la bagna.
Il silenzio è assorto sui rami, tra le radici e le pietre, sfida da lontano il tepore, ne argina il passo. Ci ha sfiorato alle spalle il vento, alitava sulle braccia e noi ce ne siamo accorti soltanto ora. L’aria baciava la pelle degli alberi, ne impregnava il muschio, avvolgeva il soppanno. Per schermirci dal gelo respiriamo nel ventre del manto e riscaldiamo il fiato col fiato, in attesa.
Un mistero antico sonnecchia nel bosco. È un animale ungulato. Raschia il fondo della tana tra le foglie delle stagioni trascorse, tra le foglie appassite. Fiuta il letargo e lo riconosce come la condizione apparente, l’unica possibile, nel gelo l’unica pratica. Si acquatta e tenta di sopraffare l’indolenza. Mentre abbassa le orecchie e china la testa, studia la quiete per coglierla di sorpresa. Millanta bonario e promette di farsi ammansire ma coltiva una fiamma, alimenta la fiamma con la paglia seccata e la stoppa che avvampa alla prima alzata di vento.
È ancora presto. La luna declina insieme alle stelle e il giorno, così come dentro le tende abbandonate al sonno, è torpido e tarda. Anche il nostro petto è torpido e tarda, forse è ferito, sfiatato per un’impresa caduta. Ignora o non crede.
Spèzzati e non soffrire! Con te morirà il dolore. Squassati per non grondare più, per non soccombere in parossistica attesa. O se puoi, svegliati, desta le forze e tendi un agguato alle trame dei rami. Vincerai il sonno, l’inettitudine e conoscerai il tuo nome. Trionfatori di decennali battaglie saranno il gesto, lo sguardo, la fronte e il tuo acume. Lungimiranti nella foresta si apriranno i tuoi occhi, pertinaci e corsieri, sentinelle avvistatrici.
Un mistero potente alberga in noi, figli sciocchi degli angeli, ungerà la fronte con la santità dei savi, con la saggezza dei santi, con l’insana tensione verso la linea dove si può guardare senza che l’occhio s’annorbi, fino ai cirri dove poter volare senza far sciogliere le ali e picchiare sul masso.
Un mistero potente dona la quiete agli abitanti del bosco, una quiete operosa che tesse e rafforza giunture, sostegni, ormeggi di pietra. Il mistero del tuono, il mistero dell’uomo che tira una corda dalla parte all’altra di un arco non teso, prenderà forme e si coprirà di vesti. Camminerà affiancato da passi sicuri. Al nostro ritorno l’arco sarà teso e segosi fantocci penetrati nel cuore, simulacri fittizi e totem caduti.
Certi dell’impresa e affrancati dal dolo, riconosceremo gli indizi, seguiremo le tracce, segneremo una strada tra i sassi.
Liberata, in veste di sibilo e in forma di saetta, la voce sfiorerà la pelle dei tronchi senza ferirla e diffonderà accenti volatili.
Apriremo la via.
Il sollievo dal peso dei sogni, dal peso fatuo dei sogni, ci farà forti e fedeli. Renderà leggeri l’incedere, il passo e la danza. Il velo è tranciato, le ombre sfumate in un’aura più chiara che sorge insieme col sole. Ora potremo cantare e la voce sonora, come le multiple voci di un organo a canne, non resterà incrinata in gola e bloccata dal morso.
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