Il risveglio dal sonno ha la voce di un richiamo, intriso di latte e calore. La voce è quella di sempre, placida che acquietava il respiro e gli affanni, che cantava la nenia conciliante e narrava le storie di navi frangenti le onde.
Il risveglio dal sonno ha la voce di un richiamo, intriso di latte e calore. La voce è quella di sempre, placida che acquietava il respiro e gli affanni, che cantava la nenia conciliante e narrava le storie di navi frangenti le onde. Il giorno che preme alla finestra conserva il tepore di lana, il chiarore che trapassa il vetro, la fede perché la promessa s’avveri. È questa che stampa sul muro un algore biancastro, che spinge a torcere il corpo, a far scendere gli arti dal letto, stirarli sorpresi da una chiama all’appello, riaffiorata dal midollo alla foce.
Il mattino è chiaro, corteggia e concilia. Sui rami punteggiati di gemme si attarda il frusciare di un volatile piccolo, grigio fino in punta di piuma. Drizza la coda, striato di bianco. Col becco a spillo pilucca le foglie, zampetta e s’appende, strappa una stringa e la porta al nido tra i rami.
La neve recede, riduce le chiazze. Tra qualche ora non ci sarà più, tra poco solo una gora bagnata, come se i muri di ghiaccio non fossero mai stati, come se il gelo silente avesse colmato l’abbaglio di un pazzo. Ma il pazzo è scappato. Il calore, che avvampava potente sotto le costole, è stato domato dalla pioggia, così come la curva sollecita dell’uno sull’altra non fosse mai stata cavalcata da onde verdi e schiumose, da giorni impennati, da mani serrate le une alle altre.
“Per sempre”. C’eravamo detti “Per sempre”.
Ma tu ed io siamo animali indulgenti, esseri smemorati, spiriti caduti. Abbiamo lanciato contro il padiglione del cielo fuochi volanti che s’accendono e si consumano presto. Prima che tutta la polvere s’incendiasse, prima che la parabola fosse tracciata per intero col sestante, eravamo lontani, col viso torto e lo sguardo negato.
Dopo la svolta, sapendo d’aver scorciato la strada con altri sentieri, ci siamo affrettati su quei sentieri, li abbiamo battuti e percorsi in fretta. Un gatto elastico si allunga sul bordo del muro, si tende per estorcere attenzioni e le ricambia. Una mano ferma l’ha striato di carbone e di crema, di bruno e di bianco. Idolo sornione, decorato, splendente contempla con gli occhi in pasta di vetro e sorride.
“Per ora”. Forse ci siamo detti soltanto “Per ora”.
La promessa è stata fatta, posizionata sulle dieci e trenta, eterna come uno starnuto, come un sorriso falsato, uno scrollo di spalle, una risposta non data, un pensiero fuggiasco, una fitta, uno strappo.
Io ti sorridevo e tu facevi altrettanto, scostando la testa, inclinando le spalle. Ridevi e pensavi d’intrecciare la corsa, le strade, in contrade aliene, indugiavi la voce in musiche nuove, in strofe dove io non c’ero e tu soltanto calcolavi quanti chilometri ancora, quante stazioni di sosta, quanti sorpassi e auto cromate.
“Quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello?”
Quanti passi devi fare per giungere a destinazione, all’ultimo cambio? Forse ormai ci sei. Accendi la luce e l’androne non ti riconosce. Sali le scale, t’appoggi, strisci i passi e il bagaglio.
A una finestra, grande, scruti la città nella sera, striata dagli occhi dei passanti e delle auto in movimento. Dal basso la città chiama. Le voci si confondono col tanfo di benzina e il profumo diluito dei fiori all’angolo, coi muri sbrecciati, i cristalli e l’acciaio dei palazzi sul fondo. Passi in rassegna le strade dell’attesa e degli arrivi, le stanze dell’amore, il buio secato da una lampada col collo lungo.
Sotto scorre la piena, stizzisce la fretta, plana il ritorno.
Stranita e senza polpa è la nostra ora, la somma delle ore che s’aggrappano agli anni.
Eri giovane quando ci siamo incontrati. Camminavi sapendo di essere al centro. Arcuando il fianco scantonavi il contatto. Un neo sul collo, cinto spesso dalla mano, punteggiava la pelle e serrava la frase.
Oggi hai chiuso la frase con le parole dell’abbandono.
Le premo nel pugno e serro la frase.
Ti ringrazio per la dedizione e la sensibilità esegetica.
Il breve racconto rende testimonianza della relativa eternità che l'essere umano attribuisce ai legami, agli affetti, ai rapporti interpersonali spesso non avendo altrettanta pervicacia e costanza nel rendere possibile che questi stessi perdurino. Credo sia uno dei malesseri sociali contemporanei.
L'atto del serrare è sicuramente un gesto finalizzato a conservare, a risarcire, a coltivare la nostalgia per un momento rilevante della vita. Quanto si conclude può rimanere caro e indicativo di una fase dell'esistenza e per questo motivo preservato.
Il brano mi trasmette malinconia per la temporaneità della storia, della relazione. Distinguo nettamente due parti, c'è un prima e un dopo, un passato ed un presente, due stati d'animo completamente differenti che condizionano anche la visione del contesto circostante.
C'è il mattino (il Passato) con il desiderio di affrontare la giornata con energia, con positività, perché si spera che la promessa si avveri, che l'amore duri per sempre e anche la natura viene vista con occhi gioiosi, infatti appare dolce, soave, delicata.
Nel Presente ci si rende conto che la promessa non si è realizzata, che il rapporto si è trasformato, da eterno è diventato temporaneo, provvisorio e la mancata realizzazione della promessa influisce su quella stessa natura …