Gian Marco Griffi non è il Bolaño italiano. Non lo è perché il suo Ferrovie del Messico (Laurana, 2022) non ne possiede la cubatura solida del far trascolorare - con devota, evocazione, lirica, sofferta in cute e vivificata nella circostanza di vita, - gli ideali, le militanze, l’affermazione perentoria del far combaciare fino al parossistico sovrapporsi di arte e vita, la stessa pellicola, la stessa epidermide, lo stesso tessuto connettivo, la stessa rete e gli stessi diverticoli venoso-arteriosi. In Amuleto brilla e dardeggia, sgargiante, la partecipata consustanzialità autentica, sofferta e forse mai cicatrizzabile della quale Roberto Bolaño è superbo cantore.
Griffi opera entro i margini di un giochino scoperto sin dall’inizio: il gioco della superfetazione lessicale, dell’autogenesi organica che vorrebbe produrre un esito stupefacente e derisorio della lucidità, un risultato deflagrante a distanze ravvicinate, a fuochi non interrotti lungo un percorso che è stato deciso di dover tracciare, irto di effetti, paragoni, citazioni spesso impropri o non pertinenti al contesto di riferimento. Talvolta la citazione per la citazione è del tutto errata. Il passo che segue ne è macroscopica e strumentale dichiarazione:
«Il vento porta un profumo di timo e vedovella celeste. Cesco incontra Tilde sotto il bersò di un’osteria accanto alla Madonna di Hrisafìttisa, con vista sull’enorme mare che circonda Malvasia e su un tramonto viola che pare dipinto su un vaso miceneo accanto alle figure di Apollo e Dioniso.»
A quale tradizione ceramografica l’autore fa riferimento? A un nuovo, e ignoto agli archeologi, periodo di pittura vascolare inedita esistente nell’inconsapevole collazione di cultura figurativa micenea che, precorrendo i secoli, raffigurava fondali paesaggistici violacei con accanto l’iconografia dell’apollineo e del dionisiaco? Uno pseudo fiordo scandinavo ed espressionista, a colori sgargianti in stile fauve o della Brücke, che fa da sfondo a un manufatto la cui stessa generica definizione di «miceneo» solleva problemi terminologici circa suddivisioni e fasi?
E ancora, qual è il significato di quanto segue? Forse di una tradizione culturale comunicativa circa i pensieri e le parole che devono al meglio e in modo circoscritto e rigido definire il sentimento d’amore in una e sola specifica località del mondo in un certo periodo storico di dialettica innescata tra uomini e cani?
«Se ne va, lasciando Cesco solo a riflettere sulla crudeltà degli oroscopi e a parlare con un cane randagio di quel di cui si parla quando si parla d’amore a Malvasia.»
Infine, una delle tante sequele, aneddotico-descrittive di carattere inventariale e asintattico. Un elenco costituito di oggetti astrusi in sé e negli assemblaggi da parolibere e mertzbau neo-dada. Ma siamo allora alle prese con una prosa post-avanguardia che del fervore dionisiaco, irriverente, rivoluzionario e distruttivo delle avanguardie ha perso buona parte della sua ragione d’essere in quanto riproposta solo cento anni dopo.
«E a quelli che gli chiedevano cosa detestasse lui rispondeva niente, amo le mie mani bozzolose e il mio naso adunco, i recinti e i boschi, le darsene e i mattugi, i pastori e i libri, amo i mormorii notturni e i bisbigli che mi destano nel cuore della notte e amo gli alambicchi e le mattonelle di casa mia, i crogioli gli essiccatoi e i cannelli dardifiamma, amo la carta sì ho molta carta, telata oleata pergamenata filigranata vergata e zigrinata e amo i cappelli le réclame e i necrologi davvero tantissimo mi fanno impazzire e amo la goffratrice l’offset e la policilindrica sì amo anche gli artropodi che conosco sì conosco migliaia, milioni, di odonati megalotteri e dermatteri e miliardi di planipenni e lepidotteri e anopluri e strepsitteri, che grande compagnia mi fanno, almeno credo, e amo gli alberi piegati dal vento, il vento, gli alberi da frutta e i loro frutti e per ciascuno di questi le singole parti, ’al ha’etz we’al perì ha’etz, almeno quelle che conosco, vediamo, amo molto il pericarpio la polpa borè perì ha’etz la scorza il mallo e il picciolo e amo i verbi imbozzacchire bacchiare e imbacare e mi piacciono i vasi cribrosi e legnosi e il felloderma e l’alburno e senza dubbio apprezzo moltissimo il gettamento l’esserci e la vecchiezza, sì proprio la senescenza e stravedo per i denti i denti i denti e ho perfino fotografie di appendiabiti palloni orpelli perché amo anche loro e godo dell’odore del refrigerio e dell’ombra, ripulisco caldaie tegghie pentole e piattelli perché amo tutti questi oggetti e onoro mio padre e mia madre specie quando li sento mugolare nella stanza a notte fonda se pensano che stia dormendo, e amo dormire, svegliarmi, andar dal dentista, amo anche templi e pagode e le cattedrali delle quali poi amo pergamo sacello lunetta e cappella e non potrei non amare i campanili e ancora pinnacoli ventarole e campane di montagna soprattutto dove ci sono il ranuncolo la potentilla e il mirtillo orecchia d’orso insieme al maggiociondolo al non-ti-scordar-di-me o miosotide che-dir-si-voglia e all’achillea borsa di pastore. […]. Quando mi viene da piangere rido! Perché il mondo è meraviglioso e a me resteranno da vivere ottanta, novant’anni al massimo, e voglio viverli alla grande, con lo sciroppo per la tosse nella tasca dietro.»
Il fuocherello d’artificio, dopo un magmatico e inconsulto, itinerario periegetico di ottocento pagine sembra riportarci al punto di partenza, all’occhio dell’elice, al non punto di svolta, allo zero comunicativo, all’esercizio onanistico dell’uso quantitativo della lingua e non al centellinato impiego qualitativo dei termini e dei loro assemblaggi distillati dal culto laico per la parola scritta e parlata.
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