Ernst Laurent (1859-1929), "Ritratto di Georges Seurat", 1883, Parigi, Grand Palais (Musée d'Orsay), disegno, matita nera su carta.
Contemplare la vita e commuoversi per essa.
Contemplare l'urgenza di scrivere e credere che per continuare a vivere con dignità sia necessario preservare il proprio santuario.
Essere gioviali, riconoscibili nella condivisione come artigiani del pensiero. Parlanti dello stesso sistema.
Fuggire la pazza folla.
Contemplare l’edificio in costruzione e alimentarlo ogni giorno, raddrizzarne i muri portanti, rafforzare le fondamenta, rifiutare le scorciatoie, la comunione delle idee solo come forma per assecondare le convenienze e il convenevole.
Contemplare il rifiuto di scrivere non perché sia un'urgenza di sussistenza in vita, ma soltanto perché qualcun altro lo fa, e ribadire il proprio senso esistenziale, altrimenti lasco.
Evitare il compiacimento in sé stessi come ripetitori inanimati del citazionismo, del servilismo formale, rifiutare il ripiegamento in sé, le derive che s’attorcono intorno alla frase che tornisce male il pensiero debole.
Avvistare il vero approdo anche dopo giorni di mare alto e mesi di secca. Trovare la mediazione tra le parole che navigano a fiotti e l’arsura del cretto. Manipolare i pensieri e le parole, inserirli come le tessere nel giusto luogo di allettamento, giocolare come un equilibrista, ravvisare la linearità del percorso come un funambolo che rischia ad ogni battuta di cadere o di percepire, spuntate sulla sua schiena, mani remiganti atte al volo.
Strappare l’abito dell’eco, il riflesso del plagio.
Riconoscere la propria, autentica voce, qualora sussista, e costringerla a farsi raggiungere invece che gettarsi nella corsa ebete e infantile, vacua e falsa, di replicare il patrimonio dell’altro.
Individuare temi autentici, nodi esiziali, contenuti liberi e scomodi, alti e segnanti.
Deviare dalle scuole di pensiero e di forma, dalla melassa del tutto ora, sempre uguale omologato.
Non acquistare a buon mercato lessicale nei negozi alla moda.
Deflettere dal formalismo e dal puro esercizio di stile.
Deflettere dalla sciatteria compromissoria, dall’onda crescente del consenso, dall’abbrutimento dei temi e della lingua.
Deflettere dalla verbosità e dalla banalità dilavata.
Mantenere la propria strada e l’andatura, le mani salde sul volante. E guidare per tutta la notte, esaurirla, scarnificarla fino ad assaporare il ritorno al giorno, alla sua luce incerta fino a quando sarà alta e distesa sulle teste degli uomini e sui raccolti strappati dai campi.
Evitare l’insolazione egotica.
Seminare, mettere a dimora e raccogliere in fretta nel corso della stagione adatta.
Leggere, leggere sempre.
Rifiutare le cattive letture e i cattivi maestri, i pessimi scrittori e le forme disseminate della mediocrità.
Scantonare dai nomi blindati, imposti dalle cordate, dalle consorterie, dai cascami abbarbicati gli uni sugli altri sulle imbarcazioni.
E ridere, a crepapelle di loro. Ridere a crepapelle del servo sciocco, del cortigiano di razza dannata, dell’analfabeta funzionale che millanta, tenta di crederci e di far credere.
Seguire il percorso del sentiero meno battuto. Scrivere con durezza, con fragilità, con spirito saldo, con strenua determinazione per riscoprire quale prospettiva o ragione spinga ancora l'uomo a scendere in strada.
Animare di autentica vita la pagina scritta.
Scantonare le mode, le convergenze, gli adeguamenti, gli stilemi imposti dal mercato, dalle scuole, dalla livella dell’appiattimento.
Incrinare la conta delle sillabe secondo un ritmo invalso che frutta un sicuro guadagno.
Ritornare all’origine. Scavare nella cerca, sondare la montagna intaccandola ai fianchi fino a scendere nel profondo, nello stomaco, nella voragine infuocata e riportare in vista l’oro custodito in vena, la sorgente ipogea, il percorso per ritornare a sbiancarsi sotto la luce.
Auspicare di avere un qualche talento, ma continuare a lavorare come se fosse necessario costruirne uno, non solo per dono, qualora esista, ma per esercizio.
Credere che la linea d’arrivo sia prossima e lontana. Prossima per non continuare a errare. Lontana affinché la ricerca prosegua. Benedire la vicinanza e auspicare il lungo percorso.
Maledire solo la stasi che prelude al silenzio.
Darsi spasimo e concedersi una tregua.
Vivere per scrivere e scrivere solo il vero.
Diventare uomini e narrarlo.
Essere coscienti, ma anche umili per riconoscere il bello dove questo canta a voce spiegata. Anche altrove rispetto al nostro campo recintato.
L’amore che accompagna e nutre. Scriverò anche di questo.
La forza di chi si pone il reale quesito avrà un ruolo non comprimario.
La bellezza e l’abisso, la nobiltà e la sprovvedutezza, la giornata comune e l’imperativo a non essere comuni. Anche questo contemplerò. Declinerò il minimo e il marginale che da periferici conquisteranno un ruolo di colmo.
Non conosco esattamente la risposta alla domanda: Perché ho cominciato?
Credo di averlo fatto sempre, durante lo studio, acquisito e scritto, esegeta del pensiero altrui e artefice di un pensiero autonomo. Durante gli anni rivolti alla storia e alla critica, durante i mesi estivi della gioia e quelli neri del dolore. Perché entrambi possono uccidere, come mani armate diverse per prospettiva e direzione.
Mi auguro di continuare a farlo, opponendo autentica vena sul palmo delle mie mani e memoria per non smarrire tale vena.
Grazie, auspico davvero di riuscire a farlo.
Salvatore Enrico Anselmi riesce sempre a catturare l'attenzione e a coinvolgere il lettore