Bolso era grasso e con una faccia antipatica a dire poco. Ottusa e comune, venata di arroganza per aver recitato da bambino nel film del babbo, per essere il figlio di una delle scrittrici meno dotate della sua generazione, per essersi buttato nella mischia politica affermando di essere un moderato, per aver baciato quasi in bocca l’alleato di governo e avergli messo le corna il giorno successivo. Per averne baciato e abbracciato un altro e aver sostenuto che, quando ci vuole, bisogna anche rinunciare ad essere moderati per assumere una più volitiva posizione decisionista, anche a costo di apparire arroganti.
Col nuovo compare di merende decisionali e irrinunciabili si riunisce spesso al primo autogrill a sud del raccordo per disquisire, davanti a una rustichella, se e a chi elargire incarichi, ruoli e candidature.
Bolso non è in grado di pronunciare la lettera e, sia stretta che aperta. Non sa dire, neanche come i rapper, influencer, tik-tok-tak-tuber, «per mè», «siamo in trè». Ma non riesce bene neanche il “perché”. Nel suo bagaglio fonetico tutte le e sono delle a. E allora quando parla svelto sembra che stia gareggiando al gioco che si faceva da bambini, uniformando tutte le vocali a una sola. «Parcà la tatala dalla damacrazia à la nastra priaratà palataca»
La sua campagna elettorale, porta a porta, citofono per citofono, centro anziani per centro anziani, club del canottaggio per club del canottaggio, circolo del tennis per circolo del tennis, supermercato chic con prezzi esorbitanti per supermercato chic, si era rivelato un fiasco di pubblico e di critica.
«Perché è in mezzo alla mischia che bisogna scendere! Perché è dove la vita vera si consuma, tra un bancone di insalata belga già lavata, asciugata alla centrifuga e allisciata col ferro da stiro, che si deve fare politica». Gli davano pienamente ragione le signore e le mamme che avevano appena iscritto i loro bambini alla scuola privata multilingue sulla Cassia.
Il padre l’aveva lisciato, quasi da subito.
L’aveva abbandonato al suo destino e s’era messo con una che a vederla sembrava saltata fuori da un film esistenzialista di quart’ordine, da uno di quei film pseudo-impegnati dove a un certo punto se i protagonisti non sono autolesionisti, disfunzionali, diarroici cronici, silenti per sciopero della saliva, bulimici di sentimenti infondati e divorziatissimi con nuovo compagno o compagna più stronzi del coniuge numero uno, allora è paccottiglia commerciale.
Una di quelle storie dove la protagonista, afona, tremante e incerta nel parlare, somiglia vagamente a un incrocio dei personaggi interpretati da Margherita Buy, Galatea Ranzi e dalla Bruni Tedeschi, sta mietendo successo tra i lettori deboli, col palato assuefatto.
È una di quelle storie dalla quale è appena uscita malconcia. Una storia martirizzante, un tunnel del sesso distribuito a pioggia corredata dalla crisi della donna di mezz’età instabile che si agita mentre parla o fuma.
Non più giovane, non bella, con un occhio strabico, le efelidi dovunque, la nuova compagna del padre di Bolso, che si chiamava Trudy Rosencrantz, sembrava essersi appena persa. Ma non si capiva se avesse smarrito la strada di casa, la dignità, o se, perdute entrambe, ora stesse recuperando un grimaldello per forzare la sua porta, pulirsi la blusa in lino crudo tibetano da macchie di ogni genere, azzerare la memoria recente per non ricordare più da chi fosse stata sedotta e quasi abbandonata, far finta di rannicchiarsi sul divano posizionato nell’angolo più dimesso e solitario di una casa fatta di sassi intonacati e di roccia friabile. Per simulare abitudini alternative, in mezzo a una provincia lontana e oltremodo pianeggiante. Salvo che la casa di sassi costa due milioni di euro perché è in un complesso masseria, cappella, stalle, e il salotto è firmato, pubblicizzato nelle riviste di architettura che mostrano divani radical chic dove far sedere signore e signori rifatti altrettanto radical, refrattari alla destra ignorante e razzista, quanto detentori di attici milanesi, bagnarole da ventiquattro metri ormeggiate in Sardegna e società registrate alle Cayman sotto falso nome, intestate al figlio appena diciottenne dell’autista al quale pagare sempre tutti i contributi e gli straordinari.
Non perché si debba essere per forza giovani, belli e con gli occhi allineati. Ma sembrava che la giovinezza, intesa come ingenuità, non le fosse mai appartenuta. Che la bellezza, intesa come trasparenza della mente, fosse stata da sempre occupata dall’opacità. Come se lo strabismo degli occhi fosse immagine di uno strabismo etico.
Trudy, testa ovale e grande come una statua arcaica e corpo fine da fuscello battuto dal vento, non ricordava più dentro quale vettura a esemplari limitati avesse promesso amore a tempo determinato o a tutele crescenti, in quale sottoscala di palazzo pariolino avesse allungato un doppio centone al manzo accompagnatore per una notte, nel bagno di quale casa d’aste, dopo aver comprato un samovar russo del XIX secolo, non troppo sicura di poter coprire l’assegno, avesse elargito attenzioni al vice banditore, in libertà per pochi minuti, per azzerare i diritti del venti per cento, o accaparrarsi uno sconto cospicuo e comodissime dilazioni.
Trudy aveva un’inflessione strisciata per non sapere esattamente neanche lei a quale identità linguistica appartenere. Perché era americana di nascita anche se di origine tedesca. Per parte di padre. Era anglo-ungherese per parte di madre. Sposata a un italiano, scriveva e parlava un italiano che, da stentato, si era evoluto in elementare. Usando questa lingua, appresa nella maturità, aveva deciso di dare una svolta alla sua vita annoiata e delusa, scrivendo storie.
Era stata disponibile e generosa per istinto e per vocazione. Nel corso di tutta la vita. Di questa disfunzionalità delle origini pagava le conseguenze nelle sue azioni, nei rapporti con gli altri, nell’attitudine sfatta e stordita che aveva quando parlava, a tal punto da far credere di averne date e prese tante poco prima. Era sempre stralunata, con le orecchie ronzanti. Si esprimeva a velocità rallentata come se dovesse aspettare che l’eco di ogni parola non la bombardasse ancora. Sorrideva ebete e sembrava non comprendere quanto le accadeva intorno.
E allo stesso tempo condiva la sua apparente innocenza, che era solo la maschera per impietosire, la strada del vittimismo, l’affermazione della sua correttezza politica, con un’arroganza sottesa. Nello sguardo, nell’atteggiamento, nella postura, nella tersa e luminosa serenità con la quale parlava del pattume sudicio descritto dopo averlo vissuto in pieno.
Si era affidata a una cordata di scrittori fantasma per poter redigere i suoi primi, fulminanti romanzi critici nei confronti della società in seno e in cute alla quale radicalmente prosperava ancora.
Animava il suo comportamento una sorta di etica anfibia, di morale ancipite, di contraddizione in termini. Infatti da qualche tempo si muoveva con andatura di chi nuota nell’acqua poco profonda degli stagni ma poi salta sulle grandi foglie di ninfea per asciugare la livrea iridescente e cangiante a seconda dell’aria che tira.
Dichiarava proclami contro le sevizie ai poveri animali che dopo aver percorso la linea vacca-vitello, venivano immolati nello scannatoio della mattanza, per abbuffarsi in privato di carne rossa.
Manifestava a favore della pace, della libertà di stampa e di pensiero nei paesi dove vigeva lo stato d’assedio, e costringeva, con le minacce e le blandizie, il giornalista di turno chiamato a parlare di lei.
Esponeva sulla soglia della sua porta modesta, tirata su con le assi dell’antico tempio di Salomone, coppie di scarpe scarlatte per infangare, come dovuto, la violenza ai danni delle donne, criticava lo sporcaccione che aveva instaurato con lei un rapporto ad alta percentuale tossica, puntava il dito contro i non uomini e le non donne, si serviva del politicamente corretto per apparire militante, impegnata, a servizio della libertà individuale. Ma in privato sbeffeggiava le scarpe rosse, andava a braccetto con il violento, dichiarava con il suo comportamento di essere lei per prima una non donna, una copia mal riuscita del prototipo umano più infido.
Altrettanto verminoso era l’aspetto dell’editore che aveva pubblicato il romanzo sulla cui copertina due donne, figlie di Dracula, si azzannavano reciprocamente alla giugulare, a bocca aperta e con i canini sanguinolenti. Era magro e smunto come l’ultima settimana di digiuno in quaresima, come l’ultima settimana di astensione dalle carni dopo mesi di gozzoviglie, come chi, avendone sperimentate di ogni colore, ora sperava di rianimare la grisaglia punitiva della quale si copriva le spallette macilente, con un’inaspettata scelta vitalistica che virava verso il verde oliva, l’amaranto, il blu screziato.
Pallore ceroso in faccia, i capelli di un indefinito colore che doveva essere stato castano, ma che col tempo s’erano imbiancati e adesso, per non sembrare fino in fondo l’uomo anziano che era diventato, li imbiondiva senza dignità e assumeva compunta attitudine. Leccava in ogni direzione e in ogni condizione, ma soltanto chi gli poteva essere utile. Gli altri, - giusti, ingiusti, retti, ignavi, onesti, disonesti, crozze vuote o teste fertili – non venivano in alcun modo considerati. Si dichiarava editore indipendente e non a pagamento, ma proponeva da subito un congruo acquisto copie. Promuoveva alcuni titoli, di solito i più scadenti del catalogo, e ignorava i pochi meritevoli. Separava quelli di nicchia da quelli non di nicchia. Questi ultimi potevano andare al macero da subito per quanto erano sciatti, scritti male, oscillanti tra romanzetti rosa, erotici, insignificanti e logorroiche raccolte di storie inutili, vicende pietose, strappalacrime e così via.
Ora sulla scorta di questo dovizioso e stratificato catalogo l’editore in persona, Matteo Marsini Luganega, si fa belloccio con le piume stinte dei peggiori pollastri che ha pubblicato e presenta tutta la sua produzione al Salone del libro di Brughiate - Noir- Misticanza del quale è fondatore e direttore artistico.
«Oggi, Signore e Signori, tre al prezzo di due, potrete acquistare: La bambina che non dormiva per il mal di denti, Lègami ancora ma non mi graffiare, I signori del Gran Can.»
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