William Turner, Attilio Regolo, 1828-1836, Londra, Tate Gallery
La nave di Achab sbarcò e Achab scese a terra.
I muri gialli delle case intorno al porto brillavano al sole e lo salutarono come si saluta un vecchio amico tornato dopo lungo tempo. Erano incastonati dentro la piombatura delle strade nere di fango come gemme, come frammenti di vetro in una finestra istoriata. Era un’opera d’oreficeria la città, una città barbarica di frontiera che s’inerpicava sulle alture circostanti blu e verdi come alghe, blu e verdi come sono blu e verdi le macchie d’olivo e di cipresso.
Le donne sulla banchina aspettavano i mariti, i fratelli e i figli. Chi solo il marito, o il figlio, o il fratello. Nella maggior parte dei casi sia un marito, sia uno o più figli, sia uno o più fratelli. Non era importante chi e quanti fossero quelli che dovevano lasciare il mare per rientrare da buoni cristiani a casa. Era difficile, infatti, che tornassero da buoni cristiani perché tra di loro c’era chi aveva ucciso, buttando a mare un compagno di ciurma, chi aveva truffato e ingannato per intascare una scommessa, chi aveva nascosto parte dell’ultima pesca per rivendere tutto sottobanco.
Tentare di scuotersi da dosso il puzzo, di pesce e di latrina, era la prima incombenza da svolgere appena tornati a casa. Perché le navi erano gigantesche latrine galleggianti, tenute su e mosse, oltre che dagli incastri di travi e dalle vele sugli alberi, anche dal tanfo di acqua marcia imbarcata dai boccaporti e dal fetore delle interiora separate dal corpo.
Le donne sulla banchina si potevano distinguere, oltre che per età, anche per la mansuetudine ritorta nella rivolta, o per la rassegnazione, per le speranze ancora intatte o per aver ricacciato dentro il petto le speranze di un tempo. Molte delle più giovani erano già state battute dalla vita. Le anziane non ricordavano più perché valesse la pena alzarsi ogni giorno, piombato, come una maledizione di sole e polvere, sulla terra. Nell’attesa parlavano, allattavano i figli tenuti a tracolla sul seno, assestavano il bucato dentro canestri di vimini che esse stesse avevano intrecciato come le palme della domenica prima di Pasqua. Le più intraprendenti dicevano addio a quelli che avevano reso meno lunga l’assenza, meno freddo il letto vuoto e che avevano mantenuto vivo il corpo negletto dai naviganti di professione.
Achab non era atteso da nessuno all’imbocco del porto.
Quattro mesi prima, - erano già passati quattro mesi dall’ultima settimana a casa, - aveva picchiato la moglie per l’ennesima volta. Come faceva sempre, senza ragione o per un motivo trascurabile: troppo sale nella zuppa, troppa zuppa senza sale, «Chi hai salutato prima dalla finestra?», «Ti vesti come una stracciona…e la gente pensa che io ti faccia mancare i soldi oppure che me li vada a bere», «Così agghindata mi sembri una puttana». Lizzi, la moglie, aveva colpa perché il bianco era bianco e il nero era nero. Perché era troppo freddo, quando calava l’inverno, e di pesci non se ne vedevano a sfioro di barca, ma si nascondevano nei fondali in mezzo alle foreste di alghe. Perché era troppo caldo e i pesci si sdraiavano a branchie aperte sull’arenile. Meglio che morire bolliti in mezzo all’acqua. Marciti due giorni lì, poi non li voleva comprare nessuno. Insomma era sempre di Lizzi la colpa.
Quando aveva rimesso piede sulla banchina l’ultima volta Achab l’aveva scorta a salutare un ragazzo. Quando stavano ancora sul pontile, lui e i compagni, in sbarco accelerato verso la terraferma che prometteva tepore di corpi e di vino, avevano visto tutta la scena: un giovane accarezzava il viso di Lizzi, e le riponeva con cura dietro l’orecchio destro una ciocca dei suoi capelli rossi. L’aria intorno a Lizzi sembrava incendiata e il ragazzo che l’aveva appena baciata era scomparso dietro il molo, veloce verso le strade che puntavano al centro, saette scoccate da un arco potente. Come una freccia scoccata da un arco potente se ne era andato via anche Mong, il giovane, verso le strade del centro. Aveva preso il suo piacere e ora abbandonava Lizzi alle rappresaglie del marito. Quella volta Achab l’aveva picchiata forte e dopo quattro mesi Lizzi, ventenne tornita e dalla pelle chiara, rimasta leggermente storpiata dalle mani a tenaglia di Achab, non era andata ad aspettarlo sul molo.
Non voleva più esporsi alle violenze del marito davanti a tutti.
Molleggiato sulle gambe, come per assorbire ancora l’altalena basculante del ponte, Achab si diresse alla locanda. Spalancò la porta, leggera al punto da farla quasi scardinare e sbattere sul muro di lato. Entrò. Avanzava con un piede posto davanti all’altro senza incertezze, ma col sentore delle fitte in arrivo sui polpacci ogni volta che riappoggiava le piante dei piedi sulla terraferma dopo tanto tempo.
Si girò intorno con lo sguardo in cerca. Due donnine, di quelle che ormeggiano nei porti, gli sorrisero ammiccanti. Erano agghindate col falso lusso triste che la professione imponeva loro. Sorridere con gli occhi neri di pianto e le bocche laccate di rosso.
Due posti al bancone, lercio e unto, c’erano. Montò a cavallo dello sgabello e ordinò da bere. Bevve e ordinò da bere. Tornò a bere e ordinò ancora.
«Ragazze belle, non è aria. Con me stasera perdete tempo. Andate a trovarne un altro. Un altro pollo da spennare».
Una di loro, quella bionda con i capelli a onde, lo guardò di sbieco.
«Non sai che ti perdi bello! Comunque, se cambi idea, io e la mia amica siamo nei paraggi».
«Dai Ada, lascialo stare. Non vedi che non ci sta…A forza di lavorare sulle navi, avrà imbarcato acqua pure lui, o forse c’avrà problemi idrauilici…».
«Sì, hai ragione. Problemi al sifone ah, ah ah!».
«Bella questa, problemi al sifone!».
E se ne andarono nella saletta sul retro per titillare, quasi da subito, due imbarcati a mezzo servizio.
La sera ovattava il porto e Achab tracannava a bocca larga. Se la sentiva ancora prosciugata dai cretti dell’arsura. Dopo l’ennesimo sbilanciamento delle spalle cascò all’indietro picchiando forte la testa sul legno nero del pavimento. S’addormentò per un’ora buona durante la quale Elsa, la proprietaria della bettola, gli sfilò da un taschino i soldi necessari per pagare tutto l’alcol ingurgitato.
«Ma guarda che pezzo di carne inutile, che è questo qui. Beve, si ubriaca e non si sa neanche se può pagare».
Fu necessario acciuffare altre monete in una tasca interna della giacca per sanare il conto.
Riavutosi, come ci si può riprendere da una gran botta in testa condita di sbornia, Achab si avviò verso l’uscita del locale blaterando. Strisciava malamente i piedi.
Il rumore delle sue stesse scarpe gli dava fastidio. Credeva che le suole gli sfregassero le tempie. L’attrito risuonava dentro le sue orecchie.
«Perché sono troppo buono, io. Perché se mi provocate, ancora, brutti pezzi di latrina…Io vi sbatto a terra con un calcio e poi vi ballo sopra! Mi avete capito?».
«Ma con chi ce l’hai?». Elsa era spazientita e voleva chiudere bottega.
«Lo sai bene, lo sai benissimo anche tu! Solo che non lo vuoi ammettere. Dì la verità. Dilla una buona volta anche tu, la verità. Ma no, non la vuoi sentire… Lo so, sei come tutti gli altri che se la fanno sotto dalla paura…».
Elsa tollerò Achab, perché era stanca e voleva chiudere il locale ma anche perché quello che Achab stava dicendo non aveva senso.
Imboccò una delle strade che portavano in centro per girare all’angolo della seconda traversa a sinistra e dopo il cantone della fontana ancora a destra. Le lastre dei marciapiedi riflettevano la luce sfocata dei lampioni tramutandola in un alone opaco e vicino. Restituivano il faro lontano della luna come se acqua, che nel frattempo s’era ghiacciata per il freddo, fosse stata versata come quando si pulisce a terra con spazzoloni e ramazze il selciato davanti ai negozi.
La città era irriconoscibile. Gli sembrava muoversi e tirare su i muri degli edifici come fossero stati braccia levate, come fossero state i tronchi di una foresta che slanciavano rami poderosi e sbiechi. Le rade finestre ancora accese gli sembravano occhi malevoli, gialli occhi di felino acquattato nell’oscurità. I portoni erano bocche, alcune serrate dai battenti sovrapposti. Altre, rimaste aperte, cantavano cupe melodie. Gli abbaini e i tetti gli parevano neri cappelli su sagome abnormi che gli ricordavano teste a punta come quelle dei fantocci di cartapesta a carnevale.
Credeva anche di percepire risate aguzze e stizzose che lo rincorrevano alle spalle e gli pizzicavano le orecchie. Si sentiva braccato dai cani da caccia e inseguito dagli spiriti.
“Non devo più bere così tanto, pensò, non riconosco neanche la strada per tornare!”.
Si sentì sovrastato, ma per raccattare un po’ di quella gioia che comunque la conclusione di un viaggio per mare gli procurava sempre, cominciò a cantare. Farfugliava, con voce baritonale impastata, strofe mozze e frasi sghembe.
«Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto! Eoh, eoh…Quindici uomini, quindici uomini, na, na, na del morto!».
Un caseggiato alto quattro piani, rosso scuro, con le insegne gialle della panetteria a due vetrine e la scritta in bianco sopra un tendone che copriva una merceria di pizzi e stringhe da poco, s’allungava con una facciata a scarpa, di sbieco.
Anche Achab era un po’ di sbieco. Aveva centrato con la spalla il cantone sinistro dell’ingresso e aveva ricevuto un colpo di rinculo. Lo stipite s’era comportato come un fucile inesistente appoggiato alla spalla tesa e troppo rigida del marinaio che non s’aspettava di dover assorbire una trazione all’indietro.
Il muro aveva sparato senza canna e senza polvere nera. La botta, però, Achab l’aveva presa lo stesso. In pieno. Barcollò, rientrando in asse col portale, percosse due, tre, quattro volte lo stipite con la sinistra aperta a cucchiaio:
«Stai buono qui, muro. Fai il bravo».
Cominciò a salire le scale zigzagando sui gradini. Si arrestò a metà rampa, a riflettere, e riprese. Riprese a stento la salita verso il pianerottolo dove il lume a gas era stato spento da poco. Salì ancora e girò a sinistra. Dopo un attimo di esitazione, infilò la prima porta. La forzò col solo peso del suo corpo. Abituata al rincasare del marito alle ore piccole, Lizzi non la chiudeva mai prima che questi fosse rientrato. Anzi nei primi tempi del matrimonio lo aspettava anche tutta la notte, appoggiata al cantonale, al freddo del pianerottolo. Col passare dei mesi, erano sposati da appena due anni e mezzo, non lo aspettava più e si limitava a lasciargli la porta aperta, soprattutto quando si avvicinava il giorno del ritorno dall’ennesimo viaggio per mare.
Non aveva paura di rimanere con la casa aperta, aperta a chiunque avesse voluto fare un salto rapido dalla strada e balzarle dentro il letto. Erano tutti buoni conoscenti, e alcuni amici, quelli che abitavano nella zona. Tutti si davano una mano come potevano e Lizzi dormiva sogni d’anima innocente dentro al suo letto anche quando lasciava la porta solo accostata per tutta la notte.
Mentre Achab saliva i gradini, che lo strofinio di anni aveva reso pendenti e sbeccati come la dentatura dei vecchi, aveva avuto l’impressione di sentire la moglie ansimare.
Sembrava lo sfiato di Lizzi quando facevano l’amore. Ma quella sera non c’era lui nel letto sopra di lei. Allo stesso ritmo un rumore grasso e scuro di uomo. Il sangue salì, salì e gonfiò le vene che segnavano di azzurrino le tempie di Achab. Achab rivide di fronte agli occhi il ragazzotto sulla ventina che l’aveva reso ridicolo davanti a tutti qualche mese prima. Strattonò la porta e afferrò il pomello che gli sembrò più grosso del solito.
Entrò di peso.
Sotto le coperte la sagoma di un uomo lambita appena dalla luce spugnosa che premeva da fuori. Ondeggiava sbuffando, sbuffava e ondeggiava. Achab credette di intravedere dalla parte destra del letto i capelli lunghi di Lizzi, sciolti e fulvi sotto la luce spugnosa che premeva da fuori.
Gli occhi si appannarono per la rabbia. Si frugò dentro il pastrano, la sensazione di aver toccato una superficie fredda e metallica gli fornì l’indizio tattile della rivoltella in una tasca interna. La portava sempre con sé durante i periodi di imbarco. L’aveva dovuta usare solo un paio di volte prima di quella sera, una notte per difendere il carico da un tentativo di furto, un’altra per rianimare la fila stracca dei galeotti che otto mesi prima erano stati assegnati alla Speranza, la Speranza di Achab, per scaricare a terra casse di tabacco.
Estrasse la pistola e fece fuoco.
Fece fuoco, gridò e fece ancora fuoco.
Tre passi indietro, urtò un cassettone alla sua sinistra che gli conficcò lo spigolo sulla colonna vertebrale. Lizzi doveva aver spostato quel mobile durante la sua assenza perché Achab aveva calcolato idealmente il vuoto dietro di sé.
Ferito alla colonna barcollò, s’appoggiò al muro. Si appoggiò e ci scivolò sopra lasciandoci una bava di sconfitta e disillusione. Ruotò la testa, fradicia la fronte, il petto in espansione e contrazione parossistica, il cuore in corsa lanciata gli pompava sangue torrido fino alle tempie. Credette che la vita lo stesse abbandonando.
Perse i sensi.
Al mattino seguente la luce, da una finestra con inferriate parallele e perpendicolari, chiazzava la figura corpulenta di Achab. La luce a macchie lo inondò accucciato su un tavolaccio. Achab sentiva addosso il puzzo emanato dalla paglia sparsa intorno a lui e gli venne da vomitare. Aveva le braccia sovrapposte, serrate ai polsi da bracciali arrugginiti, i ferracci delle manette.
“Ma che è successo?”, si domandò, tra sé e sé.
«Ma che cazzo è successo?», imprecò, stavolta ad alta voce.
Tentò di liberarsi a strattoni, ma senza alcun esito. Ritentò con più forza, ma riuscì solo a procurarsi lividi che gli cerchiarono i polsi come bracciali di nessun valore. Rimase per qualche secondo inebetito, poi la sua mente tornò lucida…Si guardò le mani di nuovo e concluse che con quelle mani, tozze e grandi come due tenaglie, doveva aver compiuto qualcosa di mostruoso, da dimenticare.
Era stato arrestato. L’avevano trovato, appena fatto giorno, appoggiato al muro della camera da letto, di fronte al letto dove erano stati ricomposti i corpi sforacchiati dei due giovani amanti.
Come se avesse scritto lui stesso il verbale dell’arresto, Achab cominciava a ricordare tutto.
Iniziò a piangere, a belare e a piangere. Piangeva e chiamava Lizzi.
Piangeva e la chiamava sperando di riportarla a sé. Si dichiarava un disgraziato, un uomo perduto senza più la moglie, pronto a morire.
Fuori dalla cella, nel corridoio della prigione sentiva due guardie parlare tra loro. Stigmatizzavano la furia dell’omicida e la gragnola di colpi che non aveva lasciato speranza ai due amanti. L’unico sollievo per Achab aver appreso che la morte della giovane donna era stata immediata, senza sofferenza. Stessa sorte il bambino che dormiva nella culla accanto.
Achab aggrottò la fronte.
Non capiva.
La conversazione tra i due uomini fuori dalla cella, in un primo momento l’aveva risollevato, la notizia della morte senza sofferenze l’aveva risollevato.
Ma ora non capiva.
“Bambino, ma quale bambino? Lizzi e io non abbiamo figli…A meno che quella lurida sguattera di porto non m’abbia nascosto per tutto questo tempo di essersi fatta ingravidare da qualche disgraziato. Eh, sì, deve avermelo nascosto. Quando non ero a casa tirava fuori il figlio dalla tana e quando ritornavo lo inguattava di nuovo. Qualche vecchia mezzana nel vicinato deve averla aiutata. Devo scoprire chi è, così le farò fare la stessa fine…”.
All’appello mentale aveva richiamato Adele, che non s’era mai fatta gli affari suoi. Ma anche Ninetta, che abitava al piano di sopra e qualche volta aveva aiutato Lizzi col bucato e a ripulire casa.
“Quale altra potrebbe essere stata?”.
Una voce di donna lo distolse da questi pensieri. «Achab! Achab affacciati, sono qui!».
Achab si affacciò.
«Achab sono qui! Non mi vedi?».
«Ciao, come stai? Gran pezzo di coglione. Addio!».
Era Lizzi che si sbracciava dalla strada mentre il ragazzotto sulla ventina la stringeva a un fianco.
Invece di aspettarlo a casa con la porta aperta, Lizzi aveva trascorso da lui la notte e l’aveva strapazzato a domicilio.
E mentre Lizzi se la spassava con l’amante Achab aveva sbagliato appartamento.
Aveva infilato la porta della vicina di casa, la povera Marta, e l’aveva fatta fuori. L’aveva fatta fuori insieme al marito e al figlio.
Soprattutto per il povero bambino si disperava, il più innocente degli innocenti che per colpa sua non sarebbe più vissuto. Allo stesso tempo si sentì sollevato, perché pensò che se quel piccoletto, che tante volte aveva tirato su quando inciampava per strada, fosse diventato come lui allora non valeva davvero la pena diventare adulti.
“Diventare violento e ubriacone come me? No, poverello, l’ho salvato! In fondo l’ho salvato in tempo!”.
Questi pensieri lo tranquillizzarono, anche se soltanto in parte e per poco tempo.
I muri gialli delle case intorno alla prigione brillavano. Salutavano il giorno come si saluta un vecchio amico tornato dopo tanto tempo. Erano incastonati dentro la piombatura delle strade nere per il fango come gemme, frammenti di vetro in una finestra istoriata.
Era un’opera d’oreficeria la città, una città barbarica di frontiera che s’inerpicava sulle alture circostanti blu e verdi come alghe, blu e verdi come sono blu e verdi le macchie d’olivo che si incuneano tra i cipressi.
Anche quello era un giorno di approdo per le imbarcazioni.
La Sicura e la Grande al molo lontano, costituivano un ostacolo alle onde leggere.
La Marosa di lato con il solito carico di legname e frutta esotica.
Dalla cella Achab si stupì della vista aperta e di quanto potesse scorgere: il porto, le banchine riempite dagli equipaggi con il loro sciame indaffarato. Uomini e carichi sembravano formiche intorno alla tana.
La nave più vicina mostrava la pancia chiara, verniciata di fresco, attraversata dalle assi orizzontali che la facevano sembrare antica per forma, ma allo stesso tempo nuova di zecca.
A prua si leggeva sgargiante la scritta del suo nome.
Era il ventre della Misericordia che lo salutava riflettendo il sole appena alzato.
Achab pianse della sua sfortuna e maledisse il porto, le navi attraccate, il vento che sembrava spazzare via la città dalla costa e farla ricadere in un angolo arso dell’entroterra.
Pianse per essere ancora vivo, ma nel suo cuore, tradito da Lizzi, esultava per non essere stato capace di ammazzare la moglie.
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