La vicenda ribaltata di un marinaio al ritorno a casa dopo mesi di navigazione. Il porto, la città, i luoghi abituali in una prospettiva distorta.
La nave di Acab sbarcò e Acab scese a terra. I muri gialli delle case intorno al porto brillavano al sole e lo salutarono come si saluta un vecchio amico tornato dopo lungo tempo. Erano incastonati dentro la piombatura delle strade nere di fango come gemme, come frammenti di vetro in una finestra istoriata. Era un’opera d’oreficeria la città, una città barbarica di frontiera che s’inerpicava sulle alture circostanti blu e verdi come alghe, blu e verdi come sono blu e verdi le macchie d’olivo e di cipresso.
Le donne sulla banchina aspettavano i mariti, i fratelli, i figli. Nell’attesa parlavano, allattavano i piccoli tenuti a tracolla sul seno, assestavano il bucato dentro canestri di vimini intrecciati come le palme della domenica prima di Pasqua. Dicevano addio a quelli che avevano reso meno lunga l’assenza, meno freddo il letto vuoto, che avevano mantenuto vivo il corpo negletto dai naviganti di professione.
Acab non era atteso da nessuno all’imbocco del porto. Quattro mesi prima, - erano già passati quattro mesi dall’ultima settimana a casa, - aveva picchiato la moglie. Mentre metteva piede sulla banchina l’aveva scorta a salutare un ragazzotto. Già quando stavano ancora sul pontile, lui e i compagni, in sbarco accelerato verso la terraferma, che prometteva tepore di corpi e di vino, avevano visto tutta la scena. Un giovane sui venticinque che accarezzava il viso di Alice, la moglie di Acab, e le riponeva con cura dietro l’orecchio destro una ciocca di capelli rossicci. La baciò e scomparve dietro il molo, verso le strade che puntano al centro, saette scoccate da un arco potente. Come una freccia scoccata da un arco potente se ne era andato via anche lui, verso le strade del centro. Aveva preso il suo piacere e dopo tre mesi abbandonava Alice alle rappresaglie del marito. Quella volta Acab l’aveva picchiata forte e dopo quattro mesi Alice, ventenne tornita e dalla pelle chiara, rimasta leggermente storpiata dalle mani tozze, a tenaglia che stringe, di Acab, non era andata ad aspettarlo sul molo. Non voleva più esporsi alle rappresaglie del marito davanti a tutti.
Molleggiato sulle gambe, come per assorbire ancora l’altalena basculante del ponte, Acab si diresse alla locanda. Spalancò la porta, leggera al punto da farla quasi scardinare e sbattere sul muro di lato. Entrò. Avanzava con un piede posto davanti all’altro senza incertezze, ma col sentore delle fitte in arrivo sulle gambe ogni volta che riappoggiava le piante dei piedi sulla terraferma. Si girò intorno con lo sguardo in cerca. Due posti al bancone lercio e unto c’erano. Montò a cavallo dello sgabello e ordinò da bere. Bevve e ordinò da bere. Tornò a bere e ordinò ancora.
La sera ovattava il porto e Acab tracannava a bocca larga e gola aperta. Se la sentiva ancora prosciugata dai cretti dell’arsura. Dopo l’ennesimo sbilanciamento delle spalle cascò all’indietro picchiando forte la testa sul legno lercio e unto del pavimento. S’addormentò per un’ora buona durante la quale Elsa, la proprietaria della bettola, gli sfilò da un taschino i soldi necessari per pagare tutto l’alcol ingurgitato. Fu necessario acciuffare altre monete in una tasca interna della giacca per sanare il conto. Riavutosi, come ci si può riprendere da una gran botta in testa condita di sbornia, Acab uscì dal locale blaterando e strisciando malamente i piedi.
Imboccò una delle strade-freccia che portavano in centro per girare all’angolo della seconda traversa a sinistra e dopo il cantone della fontana ancora a destra. Le lastre dei marciapiedi riflettevano la luce sfocata dei lampioni tramutandola in un alone opaco e vicino. Restituivano il faro lontano della luna come se acqua, che nel frattempo s’era ghiacciata per il freddo, fosse stata versata come quando si pulisce a terra con spazzoloni e ramazze il selciato davanti ai negozi. Un caseggiato alto quattro piani, rosso scuro, con le insegne gialle della panetteria a due vetrine e la scritta in bianco sopra un tendone che copriva una merceria di pizzi e stringhe da poco, s’allungava con una facciata a scarpa e di sbieco.
Anche Acab era un po’ di sbieco. Aveva centrato con la spalla il cantone sinistro dell’ingresso e aveva ricevuto un colpo di rinculo da un fucile inesistente appoggiato alla spalla tesa e troppo rigida che non s’aspettava di dover assorbire una trazione all’indietro. Aveva sparato senza canna e senza polvere nera. La botta però l’aveva presa lo stesso. Barcollò, rientrando in asse col portale percosse due, tre, quattro volte lo stipite con la sinistra aperta a cucchiaio.
“Stai buono qui, muro”.
Cominciò a salire le scale zigzagando sui gradini. Si arrestò a metà rampa, a riflettere, e riprese. Riprese a stento la salita verso il pianerottolo dove il lume a gas era stato spento da poco. Salì ancora e girò a sinistra, dopo un attimo di esitazione, infilò la prima porta. La forzò col solo peso del suo corpo. Abituata al rincasare del marito alle ore piccole, Alice non la chiudeva mai prima che questi fosse rientrato. Anzi nei primi tempi del matrimonio Alice lo aspettava anche tutta la notte, appoggiata allo stipite al freddo del pianerottolo. Col passare dei mesi, erano sposati da appena un anno e mezzo, non lo aspettava più e si limitava a lasciargli la porta aperta, soprattutto quando si avvicinava il giorno del ritorno dall’ennesimo viaggio per mare. Non aveva paura di rimanere con la casa aperta, aperta a chiunque avesse voluto fare un salto rapido dalla strada e balzarle dentro il letto. Erano tutti buoni conoscenti, e alcuni amici, quelli che abitavano nella zona. Tutti si davano una mano come potevano e Alice dormiva sogni d’anima innocente dentro al suo letto anche quando lasciava la porta solo accostata per tutta la notte.
Mentre Acab saliva i gradini, che lo strofinio di anni aveva reso in pendenza e sbeccati come la dentatura dei vecchi, aveva avuto l’impressione di sentire la moglie ansimare. Sembrava lo sfiato di Alice quando facevano l’amore. Ma quella sera non c’era lui nel letto sopra di lei. Allo stesso ritmo un rumore grasso e scuro di uomo. Il sangue salì, salì e gonfiò le vene che segnavano di azzurrino le tempie di Acab. Acab rivide di fronte agli occhi il ragazzotto sulla ventina che l’aveva reso ridicolo davanti a tutti qualche mese prima. Acab strattonò la porta e afferrò il pomello che gli sembrò più grosso del solito. Entrò di peso. Sotto le coperte la sagoma di un uomo lambita appena dalla luce spugnosa che premeva da fuori. Ondeggiava sbuffando, sbuffava e ondeggiava. Acab credette di intravedere dalla parte destra del letto i capelli lunghi di Alice, sciolti e fulvi sotto la luce spugnosa che premeva da fuori. Gli occhi si appannarono per la rabbia. Si frugò dentro il pastrano, la sensazione di aver toccato una superficie fredda e metallica gli fornì l’indizio tattile della rivoltella in una tasca interna. La portava sempre con sé durante i periodi di imbarco. L’aveva dovuta usare solo un paio di volte prima di quella sera, una notte per difendere il carico da un tentativo di furto, un’altra per rianimare la fila stracca dei galeotti che otto mesi prima erano stati assegnati alla Speranza, la Speranza di Acab, per scaricare a terra casse di tabacco.
Estrasse la rivoltella e fece fuoco. Fece fuoco, gridò e fece ancora fuoco. Tre passi indietro, urtò un cassettone alla sua sinistra che gli conficcò lo spigolo sulla colonna vertebrale. Alice doveva aver spostato quel mobile durante la sua assenza perché aveva calcolato idealmente il vuoto dietro di sé. Ferito alla colonna barcollò, s’appoggiò al muro. Si appoggiò e ci scivolò sopra lasciandoci una bava di sconfitta e disillusione. Ruotò la testa, fradicia la fronte, il petto in espansione e contrazione parossistica, il cuore in corsa lanciata gli pompava sangue torrido fino alle tempie. Credette che la vita lo stesse abbandonando. Perse i sensi.
Al mattino seguente la luce, da una finestra con inferriate parallele e perpendicolari, chiazzava la figura corpulenta di Acab. La luce a macchie lo inondò accucciato su un tavolaccio. Acab sentiva addosso il puzzo emanato dalla paglia sparsa intorno a lui e gli venne da vomitare. Aveva le braccia sovrapposte, serrate ai polsi da bracciali arrugginiti, i ferracci delle manette.
Era stato arrestato. L’avevano trovato, appena fatto giorno, appoggiato al muro della camera da letto, di fronte al letto dove erano stati ricomposti i corpi sforacchiati dei due giovani amanti.
Come se avesse scritto lui stesso il verbale dell’arresto Acab cominciava a ricordare tutto.
Iniziò a piangere, a belare e a piangere. Piangeva e chiamava Alice. Piangeva e la chiamava sperando di riportarla a sé. Si dichiarava un disgraziato, un uomo perduto senza più la moglie, pronto a morire.
Fuori dalla cella, nel corridoio della prigione sentiva due uomini parlare tra loro. Stigmatizzavano la furia dell’omicida e la gragnola di colpi che non aveva lasciato speranza ai due amanti. L’unico sollievo per Acab aver appreso che la morte della donna era stata immediata, senza sofferenza. Stessa sorte, il bambino che dormiva nella culla accanto.
Acab aggrottò la fronte. Non capiva. La conversazione tra i due uomini fuori dalla cella, in un primo momento l’aveva risollevato, la notizia della morte senza sofferenze l’aveva risollevato. Ma ora non capiva.
«Acab! Acab affacciati, sono qui»
Acab si affacciò.
«Acab sono qui! Non mi vedi?»
«Ciao, come stai? Gran pezzo di coglione. Addio »
Era Alice che si sbracciava dalla strada mentre il ragazzotto sulla ventina l’abbracciava ad un fianco. Alice, invece di aspettarlo a casa con la porta aperta, aveva strapazzato l’amante, aveva trascorso da lui la notte e non a casa sua. E mentre Alice se la spassava con l’amante Acab aveva sbagliato appartamento. Aveva infilato la porta della vicina di casa, la povera Marta, e l’aveva fatta fuori. L’aveva fatta fuori insieme al marito.
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